Te’ l’òssë a la pànzë.
(Ha l’osso alla pancia).
Dicasi di persona che non ha voglia di lavorare, non si china neanche per raccogliere un centesimo.
Te’ l’òssë a la pànzë.
(Ha l’osso alla pancia).
Dicasi di persona che non ha voglia di lavorare, non si china neanche per raccogliere un centesimo.
Quando ho visto questa scritta stavo andando a casa di un conoscente, devo essere sincero ho riso perché mi sembrava banale, pensando che io sono sposato da 32 anni. Poi una volta arrivato, davanti a un caffè parlando del più e del meno, il discorso cascò su varie persone conosciute e il mio amico mi face un elenco di coppie che erano scoppiate, separate di diverse età e condizione sociale. Capii in quel momento che di questi tempi quella scritta effettivamente aveva un valore vero in questo mondo che sta diventando sempre più futile nei valori.
Fatto realmente accaduto a San Salvo a gennaio. La moglie singhiozzante e affranta si rivolgeva al marito morto, informandolo dello sfratto appena arrivato portato dall’ufficiale giudiziario, non accorgentosi che era arrivato il prete che aveva capito solo la parola sfratto e subito intervenne dicendo “Parlate di me”.
<<Marito mio è venuto l’ufficiale giudiziario ti ha fatto lo sfratto>>!
Sempre più spesso mi trovo a sentire qualcuno esclamare l’espressione Frèchetë e la risposta secca è Frèchetë tì.
Parlare una lingua straniera è difficile, bisogna studiare la grammatica, pronuncia e le sfumature delle parole che cambiano all’interno delle frasi e il dialetto non fa eccezioni, perché a tutti gli effetti è una lingua straniera.
Ho notato che le nuove generazioni cercano di ritornare al vernacolo, riappropriarsi di un qualcosa che sentono loro, parlando una lingua che in verità non esiste che in molti chiamano abruzzese solo perché molte parole italiane vengono troncate, storpiate, adattate.
In verità parlano “Ggiargianàse” (linguaggio strano).
Questo è succede perché molti genitori provengono da una educazione passata, dove veniva inculcata nelle scuole l’idea che il dialetto era un obbrobrio, era disonorevole parlarlo e doveva essere abolita, eliminata, sterminata.
Anche perché nel caso di matrimoni di persone di località diverse avevano fatto un compromesso scegliendo di parlare esclusivamente l’italiano.
Così facendo non c’è stato un insegnamento, un passaggio, un lascito ereditiero della lingua dei propri avi.
Molte parole vengono tradotte per intuito cadendo in quello che gli Inglesi chiamano i false friends.
Come nelle parole che iniziano con “Frè”.
Questo per dire che all’espressione “Frèchetë” viene abbinata per intuito a una parola negativa come Frecà (ingannare, rubare, atto sessuale) o Frecatìure (fregatura, inganno, imbroglio).
Ma in realtà Frèchetë è una espressione che esprime meraviglia stupore o rimprovero, come addirittura, a questo punto, diavolo, senza meno o quando vieni avvisato del pericolo e tu infischiandotene tiri dritto per la tua strada e ti va male, a quel punto la persona che ti voleva aiutare ti si rivolge dicendoti “Mò frèchetë” (ben ti sta).
Da sx: Michele Molino, Felice Tomeo, Pino Cocilovo e Mario Santarelli (di VASTO) e ? ?.
Quando mi hanno dato queste foto scattate l’anno della mia nascita, del mio vecchio quartiere è stata un’emozione, perché si sono attivate tante emozioni. A parte vedere i giovani Santino Del Casale e Pierino Ruggieri che mi hanno conosciuto da sempre, vedere la chiesa senza il campanile, i segni del passaggio dei cavalli, la casa dei cugini Ialacci ancora in pianterreno e si intravede la fontanella dove le donne andavano a prendere l’acqua con le conche non ha prezzo. Ma in special modo si vedono i tufi con cui mio padre stava costruendo una camera in più alla nuova casa dove si era trasferito. Camera che sarebbe servita metà come cantina e metà come stalla. Ricordo come se fosse ora il cavallo bianco che aveva mio padre il cui nome era Regina, un giorno di qualche anno dopo venne venduta, sento ancora l’eco del mio pianto singhiozzante mentre la vedevo allontanare lungo la discesa della Madonna delle Grazie fino a sparire, mentre i miei genitori mi consolavano stando in braccio a mio padre, sostituita da un moderno motocoltivatore il cui nome era Maiella.