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Mar 29, 2015 - Articoli    No Comments

La Domuànechë dë lë Pàlmë (la Domenica delle Palme).

Quando si va in chiesa di questi tempi, il parroco fa trovare ramoscelli di ulivo sciolti o confezioni regalo con frasi del vangelo da dare a fine messa.

Ricordo che da ragazzino la domenica delle Palme bisognava alzarsi presto per andare in giro nel quartiere a trovare fiori, bussare alle porte e chiederne alle donne che avevano un giardino o prenderli senza permesso, perché non c’era tempo da perdere bisognava addobbare la palma di ulivo (la fràschë dë la lèvë) che mio padre aveva riportato di buon mattino dalla campagna.

Una volta legati i fiori mia madre aggiungeva nastrini colorati per renderlo più bello, poi tutti in chiesa per la benedizione, don Cirillo ci faceva mettere tutti, dove sta la statua di San Vitale un tempo chiuso con un recinto di ferro e cancello, in attesa che lui ci invitava ad alzarli e oscillarli mentre li benediva. Stipati in quel piccolo spazio, era scontato che iniziavano spintoni schiacciamenti di piedi e inimicizie, così all’uscita dalla chiesa puntualmente erano chiariti a frascànnë (colpi di palma) a chi se ne poteva dare di più, la palma simbolo di pace diveniva di colpo arma (ecco perché chiedevo a mio padre di riportarne sempre uno grande). Poi quello che restava si riportava a casa e dopo aver avuto un sonoro richiamo, si portava in campagna come benedizione per un buon raccolto.

Stefano Marchetta

Feb 21, 2015 - Articoli    No Comments

La Pegnètë (la pignata).

la Pegnètë

Uno delle pentole da cucina che non mancava mai in una casa contadina di un tempo andato, era la pegnètë in terra cotta.

Ne venivano messe una o più, nella bocca del camino in un angolo a diretto contatto del calore, dove non dava fastidio o ostacolava l’alimentazione della legna da ardere.

Una o più generalmente servivano per avere a disposizione sempre una piccola quantità di acqua calda per la cucina, le altre servivano per cuocere piatti a base di fagioli, a base di verdure con l’aggiunta a fine cottura di uova, a base di carne, il pan cotto e altro. Dato che la cottura era per induzione ,la donna era libera di fare altre faccende domestiche, senza stare intorno ai fornelli per paura di bruciare il pranzo o la cena.

Stefano Marchetta

Gen 29, 2015 - Articoli    No Comments

Lë Murtàlë (Il mortaio da cucina).

Lë murtàlë è un utensile utilizzato per pestare.

Si tratta essenzialmente di un recipiente, dal fondo tondeggiante, in legno duro comune nelle famiglie povere o metallo in bronzo per le famiglie più agiate, nel quale sono poste le sostanze, che sono poi triturate dall’azione di un pestello (lu Puštàllë), una corta mazzetta costituita da un’impugnatura e da un’estremità più larga e pesante.

Un tempo c’era solo il sale doppio (Tarrachìutë) uno degli elementi più importante e indispensabile del vivere e sopravvivere in una civiltà contadina che doveva conservare gli alimenti per un lungo periodo.

Elemento così importante che persino i legionari romani erano pagati con il sale, da questo e nato il termine “SALARIO”.

Quando si era piccoli quest’attrezzo era il primo banco di prova che le madri adoperavano per dare stimoli di crescita dei propri figli, triturare il sale grosso per renderlo fine per poterlo usare in cucina, era una responsabilità, ma anche un orgoglio per i piccoli perché li facevano sentire parte del vivere in e per la famiglia.

Poi c’era uno più grande che serviva per frantumare il grano e farne farina per il consumo quotidiano, poi nel passare del tempo poiché la farina si trovava con facilità, lo stesso è stato usato fino a qualche anno fa per triturare i pepi, la cui polvere veniva, usata per fare salsicce ventricine e altro.

Stefano Marchetta

Gen 15, 2015 - Articoli    No Comments

“Il maiale di Sant’Antonio abate”

In un tempo passato a San Salvo alla fiera di settembre, veniva comprato un maialino (‘nu purchetàllë) dal comitato festa Sant’Antonio abate, il sacerdote lo benediva, come segno di riconoscimento gli veniva messo un collare rosso. Questo era lasciato libero di girovagare per il paese e ogni persona poteva accudirlo e dargli da mangiare, perché tutti sapevano che era il maiale del Santo.

Alcuni giorni prima del 17 gennaio il maialino che nel frattempo era ben cresciuto, era messo all’asta e a volte capitava che qualcuno del comitato festa offrisse più degli altri pur di avere il maiale benedetto, con il suo ricavato si organizzava la festa per Sant’Antonio abate protettore degli animali.

Mi raccontava mio padre che una famiglia, in una notte di fine dicembre approfittando dell’oscurità, attirò e fece entrare il maiale nella loro casa e ne fecero salami per il loro egoistico piacere.

La mattina dopo la popolazione in breve tempo si rese conto che il maiale era scomparso forse rubato, ma nessuna sapeva cosa era successo, chi aveva osato macchiarsi di quel peccato.

Non passo tempo che su quella famiglia si abbatterono innumerevoli sciagure, prima morirono molti  animali, poi uno dei loro figli, così in un breve periodo questa famiglia cadde in disgrazia.

Così tutti capirono che fine aveva fatto il maiale di Sant’Antonio.

Ps:(Voglio solo ricordare che una volta si faceva questa festa, con la relativa benedizione degli animali domestici davanti la chiesa, mentre per gli armenti numerosi il parroco andava nella varie masserie).

Stefano Marchetta

 

Gen 5, 2015 - Articoli    No Comments

“Il Rito del maiale”

Fino a qualche anno fa il rito del maiale era la gioia di ogni famiglia, il maiale nella sua ambiguità di sporco e impuro, a sostentamento per la famiglia per un anno intero, dopo l’uccisione era lavato e purificato con acqua bollente, diventava la gràscë (l’abbondanza).

 “ A la masë cë štà lu puànë, a la vàttë cë štà lu vuènë, a lu vutenàllë cë štà l’ùijë e  lu pòrcë lë štàmë accedë, mò po’ nànghë candë vò!”

Questo diceva mio padre mentre il mattino di buon ora si preparava la callarë sopra lu trappitë, per mettere a bollire l’acqua che serviva per pelare il maiale, tutto era pronto lu scannatìurë, i coltelli di vari tipi ogn’uno serviva per un determinato lavoro, compresi i raschietti con i manici in quercia lasciati in eredità da mio nonno Antonio, poi su ‘nu tunuèccë era posto ‘na spranatàurë dove era adagiato il maiale, lu sgammijurë era posto con una corda al gancio del soffitto pronto ad appendere lu pòrcë.

Il giorno scelto era del periodo della luna in mancanza per evitare rischi di guasti durante la conservazione dei salumi, come avevano fatto i padri e i padri dei padri, come si dice meglio credere che provare.

Sulle montagne si vedeva il bianco della neve, mentre il vento portava il freddo gelido importante per la frollatura della carne, cera solo da aspettare che arrivavano gli zii e i compari per aiutare a tenere fermo il maiale.

Del maiale non si buttava niente, a riprova di questo durante l’uccisione la prima cosa che non era buttata era il sangue, subito raccolto dalle donne una piccola parte si lasciava coagulare per farne la sanguàttë, fatta a pezzettini soffritta con la cipolla o fatta, a frittata diventava la prima colazione della mattinata.

La restante parte era mescolata di continuo fino a quando non si raffreddava, per evitare la coagulazione poi conservato al fresco per qualche giorno, poi era colato e filtrato e se ne faceva lu sanghènàccë.

Poi mentre si sistemava il maiale con pezzi guanciale e altre spuntature di carne si preparava lu cìffë  e cciàffë, la seconda colazione.

Le budella una volta lavati e rigirati più volte con sapiente tecnica da mia madre, erano messe insieme alle bucce d’arancio, gli agli e acqua, fino al giorno in cui si preparavano: lë saggeccë (rosse, bianche), lë fegatèzzë, lë spresciàtë, lë lìmmuë, lë vendricènë, e in un secondo tempo lu prusìttë.

Prima che arrivassero altri tipi di conservazione, lo strutto era un elemento molto importante per riporre i salumi, di conseguenza se un maiale non aveva quattro dita di grasso sulla schiena, era una disgrazia, al contrario di adesso che le nuove specie di maiali sono sempre più magre.

Ricordo che in quel giorno molte volte cera una specie d’iniziazione di qualche cugino più grande, cui era permesso di reggere una zampa del maiale durante il rito, se questo riusciva, la sera era invitato a sedere al tavolo dei grandi, entrando così nel mondo degli adulti, mentre se non riusciva, continuava a sedere in mezzo a noi, schernito e preso in giro, noi piccoli che potevamo reggere solo la coda in attesa di crescere.

Una volta riordinato il tutto ci si riuniva tutti a tavola a mangiare: sagne, braciole, polli alla brace e altro ben di Dio, perché quella ricorrenza era un giorno di festa e di abbondanza.

 

Stefano Marchetta

Dic 9, 2014 - Articoli    No Comments

Lë Screppellë (la ricetta).

Scripp

Dolce tipico Abruzzese, ma originario del Teramano.

Ricetta e preparazione

Ingredienti

  • Farina: 1 kg grano duro + 50 di grano tenero
  • Lievito : 2 cubetti lievito di birra sciolta in ½ litro d’acqua
  • Patate lesse e schiacciate: 600 gr
  • Zucchero : q.b.
  • Olio di olivo per friggere: q.b.
  • Sale: 1 pizzico
  1. Unire tutti gli ingredienti impastare, e far lievitare al caldo coperto per almeno un paio d’ore, finchè non raddoppi.
  2. Quando la pasta sarà ben lievitata si pone sul fuoco un tegame a bordi alti con abbondante olio di oliva. Prendere porzioni della pasta con le mani unte, allungarle e dare una forma a tortiglione, friggere a fuoco vivo.
  3. Scolare, far asciugare su un foglio di carta assorbente spolverizzare con zucchero.

Suggerimenti

Le scrippelle sono ottime se servite subito, immediatamente, praticamente devono ancora fumare. Sono buone riscaldate al forno o sulla graticola davanti al caminetto.

Stefano marchetta

Nov 24, 2014 - Articoli    No Comments

A c’appartìnë?

Ricordo da piccolo quando andavo a casa dei coetanei per la prima volta e ci stavano i genitori o i nonni, ero tempestato di domande che erano di prassi, per capire che persone frequentassero i loro figli, perché la regola era :

” Và ‘nghë chèllë mèijë dë tà e fàijë lë spàsë!”

(Vai con quelli meglio di te e pagagli da bere e da mangiare!)

Tì chë sì ? (Tu chi sei?).

A c’appartìnë ? (Il cognome della tua famiglia ?)

“Dë chë sì lu féijë?  (Di chi sei il figlio?)

Petrètë gnà zë chiàmë? (Tuo padre come si chiama?)

‘Ngnà jë decènë? (Che sopranome ha?)

Se non riuscivano a capire.

A do té la tèrrë? (Dove ha la terra?)

‘Nghë chi štà a cumbuènë? (Chi sono i sui confinanti?)

Una volta capito chi eri, partivano una serie di affermazioni:

Da la fusiunumè më paràvë! (Da i caratteri somatici mi sembrava!)

Tì la còccë štucquòtë a nonnetë! (Assomigli tanto a tuo nonno che sembra che la sua testa l’hanno tagliata e messa sul tuo corpo!).

Z’arcanàscë lu štruppunàrë! (Guardandoti bene si riconosce la stirpe!)

Tì la fàccë speccechétë dë petrètë! (Assomigli tanto a tuo padre che sembra che la faccia l’hanno staccata a lui e attaccato a te!)

Stefano Marchetta

 

Nov 9, 2014 - Articoli    No Comments

La Fàndë vicchië per il popolo.

Come tutte le comunità antiche, il filo conduttore che a permesso loro di sviluppare è stato l’acqua, sia era un fiume, un torrente o una sorgente esso era il bene più importante per le genti.

In questo tempo apriamo il rubinetto e arriva l’acqua per molti rimane difficile calarsi in un tempo dove se non eri andato a prendere l’acqua alla fonte non bevevi, non cucinavi e non ti lavavi.

A San Salvo la fonte vecchia era il fulcro delle famiglie, ogni attività era legata a essa.

Volendola paragonala ai nostri giorni la potremo associare al passeggio della villa comunale o dei portici, dove ci sono i negozi, dove questi diventano luogo d’incontro per tutti.

Così la vecchia fontana a parte andare a prendere l’acqua per la casa, diventava il luogo dove ci si scambiavano notizie e pettegolezzi, diveniva il luogo, dove i giovani andavano di buon grado ad abbeverare gli armenti per ordine dei genitori e poter incontrare le ragazze che a loro volta per dimostrare che erano pronte per il matrimonio, andavano a prendere l’acqua con la conca da portare in equilibrio sulla testa, con l’aiuto della spärë (CERCINE dal latino Circinus – Cerchio)  uno strofinaccio arrotolato a forma di corona.

Così facendo nascevano le prime simpatie fatti di sguardi e sorrisi a volte ricambiate e a volte no.

Stefano Marchetta

Ott 23, 2014 - Articoli    No Comments

La Fàndë Vìcchë (la fonte vecchia).

La fàndë vìcchë (la fonte vecchia) sansalvese diede anche il nome alla vicina stradina in discesa, sotto il muraglione. E’ stata restaurata e stravolta nel suo aspetto originale diversi anni fa. L’antico acquedotto romano ipogeo (cioè una costruzione sotterranea, realizzata interamente dall’uomo o come riadattamento di cavità naturali) già alimentava fin dall’origine la vecchia fonte del borgo sansalvese che presentava un interessante sistema di tre vasche comunicanti a trabocchi decrescenti in altezza. L’acqua della fontana cadeva abbondante da due grosse cannelle metalliche. L’acqua dalla vasca di raccolta più alta raggiungeva progressivamente la vasca più bassa.

I sansalvesi bevevano l’acqua diretta che fuoriusciva dalle due cannelle metalliche. La vasca in laterizi più alta era l’abbeveratoio che raccoglieva l’acqua usata per abbeveraggio animale di asini, cavalli e buoi, la vicina vasca comunicante interposta subito dopo nel mezzo del sistema era il lavatoio usato per il bucato con le tavolozze di legno, l’ultima vasca posta più in basso raccoglieva l’acqua reflua sporca che era utilizzata per lavare le carni appena macellate o le casseruole, catini e tinozze della vendemmia o delle conserve alimentari. Tale sistema a vasche comunicanti consentiva l’uso razionale ergonomico dell’acqua sansalvese la cui potabilità era alquanto sgradita ai compaesani per l’eccessiva durezza organolettica. Fin dall’antichità la fonte vecchia fu molto preziosa per la comunità monastica sansalvese. I frati del medioevo utilizzarono quest’acqua anche per irrigare il vicino orto badiale, poi divenuto l’òrtë dë la fàndë (l’orto della fonte).

Stefano Marchetta

Ott 7, 2014 - Articoli    No Comments

Nel 1998 in piazza Aldo Moro in San Salvo si svolse: “Il primo Simposio di Scultura su pietra della Maiella”.

Parteciparono vari artisti tra cui Fabrizio Dieci, la cui opera è posta nella nostra Villa Comunale. Carmen Tornabuoni, autrice della “Dafne” posta nello spazio verde di via delle Ginestre, di cui ho un bel ricordo, lei smise di lavorare per rispondere a tutte le mie curiosità, parlammo a lungo prima di rituffarsi nella sua creatura.

Claudio Gaspari di San Salvo autore “La Stilo III” che vediamo nelle foto mentre egli scarica il suo blocco di pietra della Maiella e altri scultori.

Le opere una volta finite furono esposte al pubblico per diversi giorni sui due lati di via Roma antistante il Monumento dei Caduti.

Possiamo annotare un episodio triste, nella notte alcuni teppisti fecero cadere la “La Stilo III”, gli organizzatori saputo l’accaduto senza interpellare l’autore se la scultura era recuperabile, pensarono bene di caricare il morto e di andarlo a buttare, così la mattina era tutto apposto da far sembrare che nulla era successo.

Abbiamo le foto per fortuna che ci attestano e ci fanno conoscere il lavoro fatto dall’amico C. Gaspari, le cui dimensioni erano 100x208x68.

Alcune delle sculture il comune di San Salvo le donarono alle città con cui era gemellata.

Stefano Marchetta

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